29 agosto 2009
Sopravvivenza
E fu un massacro. Non tanto per le altezze spaventose o per la paura di morire, che pure ho avuto, e che mi ha stupita per l'attaccamento alla vita (e alla roccia) che ha saputo strapparmi, ma per l'immane fatica.
La fatica ci incattivisce e ci rende peggiori di quel che già siamo. A me in particolare toglie il fiato e la possibilità di parlare. Andavo su per la salita in silenzio, con la consapevolezza che avevo finito la batteria e con una gran voglia di mettermi a piangere.
Non mi sono messa a piangere, mi sono limitata a mugolare che ero stanca e che non ce la facevo. Una litania di lamenti e male parole, perché la strada era troppa, avevo freddo, fame, stava venendo buio e volevo la mamma.
Quando siamo arrivate al rifugio erano le 20.15. Eravamo stravolte e avevamo bisogno di una doccia. E invece no, abbiamo dovuto cenare subito, perché quei montanari alle 20.30 chiudevano la cucina. In montagna non si scherza, si cena alle 19 come i pensionati. Ci hanno messo davanti un brodino e un cucchiaio e noi, da brave bambine, abbiamo mandato giù tutto, anche se non sapevamo nemmeno più come ci chiamavamo.
Quando il sangue ha ricominiciato a circolare nei nostri cervellini fritti, ci siamo un po' riappacificate con l'impresa. Abbiamo ripensato all'apparizione dei tre camosci, a metà strada, che ci aveva lasciate commosse e stranite. Abbiamo pensato alle scalette che ci eravamo lasciate alle spalle, e a quella salita tremenda, che avevamo superato, seppur malamente. Siamo andate a dormire serene. E non abbiamo chiuso occhio.
Alle sei ci siamo tirate su, rovinate nel corpo ma pimpantissime nello spirito. Ci siamo spazzolate via una ghiotta colazione dei campioni e abbiamo affrontato il ghiacciaio.
Dopo un'ora di cammino in mezzo alla neve avevamo fatto cento metri, ma la soddisfazione era tanta, perché non sapevamo ancora che ci aspettavano altre 8 ore di cammino.
Il resto del tempo lo abbiamo tracorso nella più terribile disperazione.
Ci hanno distratte dalla disperazione soltanto gli scenari mozzafiato, la paura di cadere di sotto, i capitomboli sul ghiacciaio con il conseguente culo fradicio, gli elicotteri che cercavano i dispersi, gli scalatori che incontravamo e con cui scattava immediatamente la solidarietà montanara: "Quanto manca?" "Mah, mezz'ora": ed era sempre una mezzora di 2 ore, minimo.
All'arrivo, stranamente, non c'era nessuno ad applaudire: c'era solo un ragazzo simpatico che ci ha dato uno passaggio in macchina.
Questi i numeri della ferrata, che ho immediatamente giocato al superenalotto:
25, come i chilometri percorsi in due giorni
16, come le ore camminate
3 come noi tre
77, come le gambe delle donne, quelle che non ho più da una settimana, dato che sono tutte un livido e non si piegano neanche se glielo domandi per favore
305, come il numero del sentiero
2580, come l'altezza a cui abbiamo dormito.
Pubblicato da
l'Asteroide
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